La scuola e la professionalità insegnante possono motivare i ragazzi difficili?
Un problema non secondario nella scuola è quello della verifica della congruenza tra gli obiettivi cognitivi e quelli di socialità (spesso definiti “comportamentali”) per motivare comportamenti più adattivi degli alunni.
Nella scuola esiste la prassi di definire gli obiettivi sia didattici che di comportamento. Nel redigere il POF (piano dell’offerta formativa) gli insegnanti si preoccupano di inserire tra gli obiettivi quelli che si riferiscono all’acquisizione di motivazioni di vario genere come ad esempio la motivazione allo studio autonomo, la motivazione ad un comportamento responsabile, la motivazione al rispetto delle regole, la motivazione all’ordine personale, ecc.
Per il raggiungimento di tali obiettivi ci si propone di stabilire una relazione con l’allievo fondata sul rispetto dei suoi bisogni di autostima e autoefficacia. Nella comune prassi didattica oggi si tende a motivare l’alunno ai comportamenti suddetti, con delle attività supplementari e complementari alle normali sequenze disciplinari (curriculari) perché in questo modo si pensa che queste dovrebbero riscuotere maggiori consensi tra quegli allievi che mostrano difficoltà di socializzazione e scarsa motivazione allo studio.
L’intento di questa operazione sarebbe quello di offrire un contesto più piacevole dove gli apprendimenti si concretizzino mediante attività alternative alla prassi dell’insegnamento frontale. In questo caso allora, le abilità oggetto degli interventi alternativi si riferiscono ad obiettivi che non riguardano quelli delle cosiddette attività curriculari. In questo modo e con questa prassi si interviene per rinfocolare la motivazione a comportamenti alternativi agendo però non nel senso di estinguere quelli indesiderati ma di produrne altri che si spera soppiantino questi ultimi.
Purtroppo secondo le leggi dell’apprendimento questa modalità presenta incongruenze. La prima risiede nel fatto che i comportamenti indesiderati vengono premiati anzichè estinti in quanto vengono offerte attività che con la iustruzione hanno poco a che vedere ma sono perloppiù di svago e intrattenimento. Ci vorrebbe allora una formazione che recuperi abilità di astrazione, di formalizzazione e logico matematiche o lessicali e grammaticali. Per conseguire queste abilità sarebbe necessario che questi alunni venissero impegnati in un programma di allungamento dei tempi della loro attenzione, di allungamento dei tempi della reazione di intolleranza, di sostituzione di risposte disfunzionali con risposte di cooperazione e di prosocialità e lo sviluppo di capacità di raccontarsi e di dare parola al conflitto. Rinforzando in questo modo il senso della propria efficacia e competenza si pongono le basi per il rafforzamento dell’autostima, l’accettazione sociale impostata su valori alternativi a quelli della prepotenza o del disimpegno.
Includere un’attività piacevole per rinforzare un comportamento desiderabile è il metodo di elezione della psicologia cognitivo – comportamentale. I manuali però raccomandano che l’attività però dovrà essere funzionale al comportamento che sta introducendo altrimenti rischia di essere inefficace o addirittura favorire un comportamento diverso. Cioè il rinforzo deve essere contingente nei confronti di quel comportamento che si vuole introdurre. Molti educatori commettono l’errore di fornire rinforzi non contingenti quando pensano che creare un ambiente piacevole influenzi in modo positivo l’apprendimento degli studenti che si trovano in quell’ ambiente. Un rinforzatore è contingente per un comportamento specifico quando segue immediatamente quel comportamento e non altri, come ad esempio un premio molto gradito , ad esempio un voto sul quaderno, una ricreazione o una attività piacevole alla fine di un esercizio ben svolto. A volte, nella mia esperienza, è necessario un “ottimo” o “bravissimo” accompagnato da un sentito e chiaro segnale espressivo e anche da una carezza (nei piccoli) o una stretta di mano (nei grandi). Altre volte basta un “bravo” espresso con autenticità e partecipazione.
Un’altra incongruenza consiste nel sottoporre comunque questi allievi ad apprendimenti curriculari in quanto essi dovranno essere presenti alle lezioni frontali in classe. Il rischio, purtroppo, è che gli allievi abituati ad attività “alternative” più piacevoli (l’errore di cui accennavo sopra) percepiscano queste ultime non come attività che concorrono all’acquisizione di mete educative ma come un premio alla loro incapacità o disabilità contribuendo ad alimentare uno stereotipo.
Dal punto di vista della teoria comportamentale questi interventi supplementari, agendo da rinforzatori del disimpegno, producono ulteriore reticenza e disimpegno e allontanano di fatto il conseguimento dell’obiettivo della motivazione ad un apprendimento più efficace.
Gran parte degli insuccessi che si registrano nella scuola possono essere spiegati in questo modo.
Una prassi adeguata, atta a favorire l’acquisizione delle motivazioni di cui sopra dovrebbe essere imperniata su strategie di modificazione del comportamento piuttosto che su generiche attività complementari che, comunque, non dovrebbero mai essere considerate alternative alla comune prassi didattica (intendendo per “comune prassi didattica” tutte le strategie di insegnamento – apprendimento messe in atto dall’insegnante per permettere all’allievo il raggiungimento degli obiettivi curriculari).
Definito che lo stabilirsi di una efficace e gratificante relazione tra insegnante e alunno, sebbene “territorio” della specifica professionalità dell’insegnante, concorre in modo determinante all’acquisizione di motivazioni adeguate da parte dell’alunno, rimane il fatto che l’attuale formulazione degli obiettivi per la motivazione risultano generici e come tali difficilmente perseguibili.
La motivazione a fare una cosa anziché un’altra nasce verosimilmente dall’attivazione di un bisogno alternativo.
Ad esempio, se un alunno preferisce guardare la televisione invece di fare i compiti vuol dire che il bisogno di guardare quel programma è preminente rispetto a quello di ricevere una gratificazione per l’impegno mostrato. D’altra parte perché egli dovrebbe rinunciare ad un piacere immediato per uno differito? A parte le argomentazioni sulle abitudini di vita, sul contesto familiare e sui valori preminenti del contesto sociale, il problema che viene posto alla scuola non è come fare per rendere più “appetibile” per un allievo fare i compiti piuttosto che andare a giocare a calcio con gli amici, ma quello di agire per rendere più forte l’aspettativa del riconoscimento per avere svolto i compiti agendo sia sulle prerogative dei genitori che sulla relazione stabilita con l’insegnante.
La dimostrazione di questo ci viene dalla semplice constatazione che alcuni bambini con modesta motivazione allo studio svolgono più spesso compiti di certe materie che non di altre. In questo caso è probabile che la relazione con alcuni insegnanti sia strutturata in modo che al bambino risulta più importante o più facile svolgere quei compiti e non altri. Perché il bambino ha preferito svolgere i compiti in una materia e ha tralasciato le altre ? In altre parole: è stato spinto da una motivazione intrinseca o estrinseca? Cioè li ha svolti per il semplice piacere oppure pensava alla ricompensa che avrebbe ricevuto dall’insegnante il giorno dopo?
Qualunque sia stata l’origine della motivazione quel comportamento indica inequivocabilmente che produce effetti desiderabili i quali avranno un’alta probabilità di ripetersi trasformando magari, una motivazione estrinseca (cioè “devo farlo”) in una più solida motivazione intrinseca, cioè, “voglio farlo”.